Adesso le cose sono andate parecchio oltre gli abusati tre indizi di Agatha Christie ricorrenti nel pigro clichet giornalistico. Gli Usa di colpi ne hanno battuti quattro, secchi e in sequenza. Dunque le recenti missioni politiche, ovviamente in ordine sparso, di Giancarlo Giorgetti e Luigi di Maio in Usa sono state un clamoroso insuccesso. Ma se mentre i due sono impegnati in una competizione interna alla coalizione di governo per fare turismo in America, le distanze tra Roma e Washington, DC si allargano invece che accorciarsi, allora c'è quantomeno un enorme problema di comunicazione bilaterale tra la maggioranza grilloleghista e l'Amministrazione Usa.
Aveva cominciato Garret Marquis, il portavoce del Nsc. In un tweet del 9 Marzo indicava che la con la firma dello sconclusionato MoU con la Cina, l'Italia rischiava di legittimare la strategia predatoria del progetto BRI. Il 16 marzo, ancora Marquis spiegava alla stampa internazionale che "funzionari degli Usa a più livelli hanno parlato pubblicamente delle preoccupazioni americane relative alla diplomazia infrastrutturale cinese e agli effetti negativi che questi sforzi potrebbero avere sulla trasparenza, sulla sana gestione fiscale e sulla buona governance economica in tutto il mondo". Successivamente ha parlato Mike Pompeo. In un’audizione alla Commissione per gli Stanziamenti del Congresso, il 27 marzo, il Segretario di Stato, ha affermato: “È deludente ogni volta che un Paese inizia a impegnarsi in accordi commerciali con la Cina e le interazioni non sono chiare”. Pompeo rispondeva a una domanda precisa posta dai deputati che sollecitava una lettura del capo della diplomazia americana sull’adesione dell’Italia alla BRI. Secondo Pompeo “sul momento può sembrare positivo, si pensa di avere un prodotto a basso costo o costruire un ponte o una strada low cost, ma alla fine ci sarà un costo politico che supererà il valore economico”. Ma la Cina non è l'unico fronte di incomprensione tra Roma e Washington, DC. Passa un giorno, e il 28 marzo, a margine del viaggio di Luigi di Maio negli Usa, dagli uffici del Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton arrivano segnali inequivoci di distanza sul dossier Venezuela. L'Italia, come noto, non riconosce la legittimità del governo ad interim di Juan Guaidò nominato secondo l'art. 233 della Costituzione venezuelana e prontamente riconosciuto dagli Usa e dai Paesi alleati. La maggioranza politica si mantiene obliqua nonostante le ingerenze russe su Nicolas Maduro; Mosca ha inviato truppe e materale bellico a Caracas. E' presumibile che proprio Bolton abbia chiesto al riluttante Vicepresidente del consiglio di compiere il passo formale in favore di Guaidò, che però non arriva, così come è presumibile che il Segretario al Commercio Wilbur Ross gli abbia chiesto di aumentare l'esposizione italiana allo shale gas americano per ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia. Infine il 30 marzo, l'Ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg ha esplicitato in una lettera aperta al Corsera il merito dell'Atlantismo, rilevando i rischi geopolitici, militari ed economici posti da Cina e Russia nel crescente Nuovo (Dis)Ordine Mondiale. L'Italia collocata al crocevia del nodo Orientale e avamposto nel Mediterraneo del nodo meridionale, appare incapace di comprendere il proprio delicato ruolo geopolitico.
I temi di confronto sono dunque molti e molto vulnerabili alle derive ideologiche degli inesperti populisti. Ma il tema più preoccupante è l'apparente mancanza di un rapporto di fiducia. I comportamenti incoerenti della maggioranza di governo non danno un colpo al cerchio e uno alla botte, ma un solo fragoroso colpo alla affidabilità internazionale del Paese. D'altra parte le credenziali Atlantiche non si improvvisano. Se non se ne condividono i valori le dichiarazioni di amicizia pro forma verso l'America rischiano di riempire lo spazio tra Roma e Washington, DC solo di rauca diffidenza. Amicus Plato, sed magis amica veritas.
Redazione Italia Atlantica
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