Il “dilemma ridistribuzione-riconoscimento” (Fraser 1997) propone di dover perseguire simultaneamente la redistribuzione ed il riconoscimento di giustizia sociale; un obiettivo, questo, complesso, capace di creare persino una situazione contraddittoria. Per ottenere un’equa distribuzione delle risorse, infatti, le minoranze oppresse e svantaggiate sarebbero spesso costrette a dichiararsi “uguali” alla maggioranza.
Il dilemma proposto insegna però altro. Anche quando il riconoscimento delle differenze sociali sia perseguito per un’equa redistribuzione, ci saranno sempre casi nei quali la maggioranza rimarrà la stessa, mentre la minoranza sarà unilateralmente classificata come inferiore; tanto che un simile riconoscimento può in effetti giustificare la percezione della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza.
Secondariamente, anche se la redistribuzione della ricchezza avesse effettivamente luogo, l’obiettivo della redistribuzione sarebbe comunque stigmatizzato, perché il riconoscimento sociale insito nella redistribuzione di ricchezza rischierebbe di portare al sollievo le minoranze come l’aver raggiunto un risultato, senza mettere però in discussione la causa sociale della produzione della minoranza.
E’ noto peraltro che proprio per tali motivi la politica del riconoscimento riproduce e perpetua la norma dominante che produce a sua volta la minoranza stessa, dimodoché simili risultati non sono il risultato di ciò che in realtà la rivendicazione del riconoscimento di giustizia sociale si proponeva di ottenere in partenza.
Occorre quindi che una condotta politica, il più possibile deterministica, consenta di far coesistere un certo grado di differenziazione dei gruppi economici con l’intera società latu sensu; una differenziazione che ben potrebbe realizzarsi in concreto con una profonda riforma fiscale: di una simile riforma partite iva ed imprese, cittadini dipendenti pubblici e privati e nuove imprese sarebbero i tre differenti ed esclusivi gruppi ai quali proporre un welfare differente, deterministico in funzione della causa sociale riconosciuta.
E’ chiaro anche che il problema di politica economica della redistribuzione consiste nell’universalità del reddito, dunque nella necessità di vincoli alla redistribuzione verso meccanismi di finanziamento progressivi.
Quale sarebbe però l'utilità di concedere un reddito base a seguito di un fisco equo e socialmente responsabile? La risposta a questa domanda deve essere quanto più coerente con l’efficienza ricercata, dovendo riconoscere nell’eguaglianza un valore, un criterio dominante, un ottimo paretiano.
Partendo da queste prerogative la riforma del contratto sociale dovrebbe anzitutto consentire di aumentare i consumi a vantaggio di tutte e tre le differenti classi fiscali. Quindi permettere di ottenere una serie di vantaggi comparati. Inoltre, la riforma stessa dovrebbe permettere di poter distinguere i redditi tra capital gains e lavoro, ovvero tra redditi immobiliari e redditi individuali, trattandosi di due diverse classi di reddito che non potrebbero mai compensarsi vicendevolmente in termini di redistribuzione delle risorse complessive.
E’ bene infatti rammentare che la redistribuzione sociale delle risorse è sì un tema politico ma non è di certo un tema economico in senso stretto. Come sostenuto dal premio Nobel A. Sen, poiché la redistribuzione è una questione controversa non solo per il “senso di sé” - rilevante per la capacità di poter funzionare (Fraser 1997) - ma anche perché lo stesso concetto di capacità economica proposto resterebbe distaccato dalla concentrazione della distribuzione delle risorse, come per i “beni primari sociali” di Rawls o nel concetto di “risorsa” di Dworkin, se il reddito base fosse un concetto prossimo alla capacità economica dovrebbe anche essere determinato attraverso un’imposta negativa, ovvero una esternalità. A riprova di ciò, basti ad esempio pensare alla teoria del premio Nobel Oliver Hart secondo il quale i vantaggi sociali esistono solo se le imprese producono con responsabilità. Per l’economista “Se le aziende ascoltassero gli azionisti più responsabili invece di massimizzare solo i guadagni, ci sarebbero vantaggi considerevoli dal punto di vista sociale”. E così sarebbe anche per lo Stato, posto che “con certezza possiamo osservare che i costi sociali sono sempre alti quando non si osservano linee guide di una Responsabilità sociale delle aziende” (O. Hart, Festival di Trento, in IlSole24Ore 5/6/2022).
In sintesi, il percettore del reddito e lo Stato avrebbero due strategie, una voice ed una exit, la prima capace di spingere i cittadini ad investire e lavorare, la seconda consapevole che esistono soggetti orientati a boicottare oppure ad avvantaggiarsi con l’inoccupazione grazie al sostegno pubblico; un conflitto indirizzato verso un guadagno socialmente rilevante, frutto di una assemblea tra i soci socialmente responsabili ed i boicottatori dell’azienda-Stato.
Il reddito diventerebbe in tal modo una funzione della democrazia, una espressione dei diritti disponibili, una loro espressione in termini di utilità. Ferme queste premesse, sarebbe persino possibile parlare di un dividendo sociale, un interesse alla partecipazione democratica, un’espressione del progresso economico.
Il sostegno pubblico discusso dall’assemblea dei soci dell’azienda-Stato è in effetti prossimo al concetto di dividendo, quel reddito base universale che dipenderebbe dal modo con il quale verrebbe finanziato: per similarità concettuale, si pensi ad esempio al reddito statale concesso all'inizio della pandemia di Covid-19.
Ma cosa penserebbe il pubblico, estraneo alle trattative dell’azienda-Stato, di una simile proposta, magari estendibile ad una certa determinata platea ma non certo a tutti (cosa ne penserebbero i soci di minoranza)?
Ebbene, come le scienze sociali insegnano, la questione diventa ora più complessa di fronte all’aumentare della numerosità degli attori coinvolti e della porzione di minoranza inclusa. Occorre infatti considerare che proprio per il motivo prima accennato, il sostegno ad un reddito di base universale resta uno dei principali enigmi politici del nostro tempo mentre, nel contempo, questa idea, un tempo utopica, sostenuta principalmente da filosofi e scrittori, resta un’alternativa sempre più praticabile, con una rilevanza crescente nei dibattiti politici delle democrazie occidentali. Queste intendono però il reddito base come quel pagamento in contanti universale, incondizionato ed individuale, effettuato a tutta la popolazione senza vincoli; un reddito universale tuttavia in netto contrasto con l'approccio ortodosso al welfare, fondato principalmente su mezzi di prova o su trasferimenti di denaro condizionati.
Pertanto alcune proposte economiche, ancor prima che politiche, vedono un po’ ovunque e con sempre maggior consenso il reddito base al pari di una imposta negativa, poiché propensi a condividere la teoria sviluppata da Milton Friedman e Juliet Rhys-Williams che introdussero per primi il reddito di inclusione negli strumenti di politica fiscale disponibili; una teoria che intendeva il reddito base come quell’imposta personale sul reddito che, al di sotto di una determinata soglia, definita minimo imponibile, si trasformava in un sussidio.
Su questa teoria maturò anche la possibilità di intendere il basic income al pari di un vero e proprio reddito da partecipazione, come quello prodotto dalle società trasparenti, elargibile e persino imponibile in capo ai soggetti non residenti, chiamati alla presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia: uno strumento idoneo ad incentivare la mobilità sociale europea ed internazionale simile ad una esternalità da immigrazione di capitale umano.
Infine sarebbe ipotizzabile e percorribile la teoria del c.d. euro dividendo. Secondo questa ipotesi l’UE dovrebbe pagare un reddito di base modesto ad ogni residente legale dell'Unione Europea o della zona euro, un sussidio finanziato dall'imposta sul valore aggiunto. Questa strada risulterebbe percorribile persino dalla banca centrale europea in quanto idonea a calmierare i prezzi al pari di un deflatore del PIL: l’aumento dei prezzi sarebbe in effetti depurato di una porzione di valore aggiunto sensibile al rapporto reddito nominale su reddito reale.
Di certo sarebbe tuttavia empiricamente impossibile prevedere un reddito incondizionato, tanto che oggigiorno la questione sul reddito sociale attrae il dibattito politico nel solo campo dei meccanismi di finanziamento del sistema, sebbene si proponga sempre l'impiego del medesimo sistema binario ora previdenziale, ora erariale. Un errore di politica economica, questo, perché intrinseco nell’anteporre gli strumenti agli obiettivi, peraltro con interdipendenza tra loro; tutte circostanze, queste, che non consentirebbero mai di perseguire una soluzione univoca.
Sembra essere invece più importante il fatto che il finanziamento di un sistema di trasferimento di denaro venga perlopiù generato aumentando l'imposta sul reddito delle persone con le soglie di reddito più elevate secondo un approccio deterministico; un prelievo vincolato, che aumenti esclusivamente il sostegno pubblico di reddito al di sopra di qualsiasi altra caratteristica o necessità di spesa pubblica.
Di certo, solo con precisi vincoli di destinazione si potrebbe correlare alla traslazione fiscale una consequenziale forte domanda interna, l’unico effetto atteso dall’azienda-Stato proposta, capace di giustificare un sistema di trasferimento di denaro davvero ridistributivo. E sanzionare nel contempo i boicottatori dell’assemblea democratica, tanto da consentire un guadagno socialmente rilevante.
Angelo Mucci
Comments